Carissime Capo, carissimi Capi, carissimi confratelli Assistenti,
la risurrezione del Signore viene a illuminare questo primo scorcio del 2021, sul quale avevamo riposto tante speranze riguardo la fine della pandemia, e che, invece, ci sta vedendo ancora impegnati a fronteggiarla. È vero: siamo spossati e stanchi, ma dobbiamo ancora stringere i denti e – cosa senz’altro ancora più impegnativa – aiutare le ragazze e i ragazzi che la Provvidenza ci ha affidato a fare altrettanto.
Qual è il senso di questo sforzo, che a volte ci sembra sovrumano?
Alla ricerca di una risposta a questa domanda desidero dedicare questa lettera, l’ultima che vi scrivo nel mio ruolo di Assistente generale.
Quando ero al Liceo, la mia professoressa di lettere un giorno spiegò la differenza tra dramma e tragedia: quella lezione non l’ho mai dimenticata!
La differenza sta nella conclusione: la tragedia finisce ineluttabilmente male, in modo totale e irreparabile; il dramma, invece, fino alla fine può prendere una piega positiva o negativa, concludersi bene o concludersi male: dipende dalle circostanze, dai protagonisti e dall’incrocio di variabili che spesso sono fuori del loro controllo. E, in ogni caso, nonostante il lieto fine, ci sarà sempre un prezzo – più o meno alto – da pagare.
La vicenda di Gesù – e del cristianesimo – considerata senza gli occhi della fede è senz’altro una tragedia: tutto finisce sulla croce; non c’è speranza alcuna, né alcuna possibilità di deviare il corso delle cose e degli eventi, condannati a restare in balia del determinismo naturale o delle dinamiche storiche piegate dal più forte alla sua volontà.
Letta con gli occhi della fede, invece, la vicenda di Gesù – e del cristianesimo – prende una piega profondamente diversa: è un dramma, senz’altro, che incrocia e comprende il dolore, la sofferenza e la morte, di Gesù e di tutti gli uomini; ma c’è un senso ulteriore (come significato e come direzione) che la risurrezione del Signore dispiega e fa risplendere nella vita di ciascuno e del mondo. La morte non è (più) l’ultima parola di dissoluzione, il dolore e la sofferenza non sono (più) condizioni esistenziali definitive, la violenza e la prevaricazione del più forte non sono (più) l’unica modalità di impostazione e gestione delle relazioni.
La differenza la fa la risurrezione!
L’ultimo anno di questo triennio – che volge al termine e si protende verso la prossima assemblea generale – si sta snodando attorno a due motti: quello dell’anno, “Campo in questa direzione”, e quello dell’assemblea, “… chi sono io?”.
Il nostro cammino verso Cristo risorto – la Fonte verso cui torniamo e il campo verso cui ci muoviamo – è senz’altro drammatico: quante scelte radicali comporta la fedeltà a Cristo e al suo amore? Quante rinunce a sentieri comodi o a uscite di sicurezza comporta la sequela del Risorto? Quanta fatica nel pagaiare controcorrente sulle rapide della vita, quando basterebbe lasciarsi trasportare dalla mentalità mainstream? La bellezza della strada e dell’obiettivo non eliminano la fatica, le cadute da cui rialzarsi e i traumi da medicare. Se al capolinea ci fosse solo la croce, sinceramente, non ne varrebbe la pena… Paolo l’aveva capito benissimo: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. (…) Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti» (1Cor 15,14.17-18).
La risurrezione, come senso della nostra vita, illumina anche la nostra vocazione e la riempie di luce splendente: la risposta alla domanda “…chi sono io?” ha come presupposto la consapevolezza di essere chiamati alla risurrezione nella relazione con Cristo, che vittorioso si erge sul sepolcro vuoto. Tante circostanze drammatiche dovranno affrontare gli apostoli, dal momento in cui prenderanno consapevolezza definitiva della missione affidata loro da Gesù, ma alla fonte di tutto – per loro e per noi – sta l’affermazione di Pietro nel momento in cui occorre procedere alla sostituzione di Giuda (che, poveretto, è rimasto bloccato in una concezione tragica della sua vita): «Bisogna dunque che (…) uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione» (At 1,21-22).
È alla luce di questo senso che vale la pena continuare ad affrontare gli sforzi che la pandemia ci sta chiedendo; è alla luce di questo senso che la nostra vita quotidiana, il nostro servizio educativo, la nostra tensione ideale e i nostri sogni mettono le ali e si proiettano verso l’oltre di Dio.
Tutti testimoni della risurrezione, ma ognuno nel modo unico e irripetibile che l’amore del Padre ha sognato per lei o per lui prima ancora della creazione del mondo.

Buona Pasqua!
Don Paolo La Terra  – Assistente Generale